Viene riportato integralmente un articolo di Andrea Cantucci, preso dal web. Impossibile inserire il link in quanto si tratta di un documento word, ma molto interessante da poter leggere riguardo i linguaggi artificiali.
LE IMMAGINARIE LINGUE DEL FUMETTO
LE IMMAGINARIE LINGUE DEL FUMETTO
Prima parte: Terre
inesplorate e animali parlanti
Articolo
di Andrea Cantucci
Il fumetto, come si sa, è un linguaggio privo
di una vera e propria dimensione sonora percepibile, ma al tempo stesso è
basato tanto sui dialoghi (che ognuno può immaginare di sentire diversamente
nella propria testa mentre legge) quanto sulle figure racchiuse nelle vignette
che mostrano come si svolge l’azione. Quindi questa forma narrativa popolare, i
cui eroi spesso vivono avventure a contatto con popoli diversi dal proprio, dovrebbe
affrontare anche il problema di come differenziare il linguaggio di tali
popoli, più o meno estranei o misteriosi, realmente esistenti o immaginari,
semplicemente esotici o del tutto alieni, che si dovrebbero esprimere in idiomi
diversi dai personaggi che parlano la stessa lingua del lettore. “Dovrebbero”
appunto.
Il condizionale è d’obbligo poiché molto
spesso gli autori, soprattutto del passato, hanno preferito ignorare
semplicemente il problema, un po’ per comodità e un po’ per non complicare
troppo la vita al lettore stesso.
A volte agli autori basta una vignetta per
riassumere un periodo di tempo più o meno lungo in cui l’eroe apprende la
lingua di un certo popolo, lingua che il lettore potrà così continuare a
leggere comodamente tradotta nella propria. Nelle storie di fantascienza la
tecnologia può venire in aiuto per non far perdere troppo tempo ai
protagonisti. Certi viaggiatori del tempo come Valerian o Lilith, grazie alla
scienza del futuro, apprendono in pochi istanti per induzione la lingua dei
paesi di altre epoche in cui sono appena giunti.
Non mancano naturalmente neanche gli autori
più accurati, che si documentano per inserire nei loro fumetti anche frasi
nelle lingue più esotiche. Per far capire al lettore ciò che si dice in una
lingua straniera, in tanti fumetti è uso abituale far seguire alle frasi una
approssimativa traduzione tra parentesi, o in una didascalia in calce alla
vignetta, in pratica dei veri e propri equivalenti fumettistici dei sottotitoli
cinematografici.
Negli USA le traduzioni sono spesso inserite
tra parentesi ad angolo e da un po’ di tempo si è andata affermando la
convenzione di non scrivere nemmeno più le frasi nella lingua straniera ma di
indicare soltanto i dialoghi che si finge siano in un’altra lingua (vera o
immaginaria) sempre inserendoli tra parentesi ad angolo e limitandosi
eventualmente a specificare di quale lingua si tratti in una didascalia
all’inizio della sequenza, nel caso in cui non sia possibile capirlo subito dal
contesto. Così gli autori possono evitare di dover studiare o inventare
appositamente delle lingue che magari sarebbero usate solo in una breve scena.
Linguaggi
simbolici
In tanti fumetti i linguaggi alieni o
stranieri sono resi con segni incomprensibili al posto delle lettere, con
alfabeti diversi dal nostro, o con parole o versi senza senso, così da
rappresentare simbolicamente l’impossibilità di decifrarli. Ciò accade in certi
episodi di Tintin, il cronista giramondo creato dal maestro belga Hergé nel
1929, in cui in qualche occasione i dialoghi degli indigeni sono scritti con
gli alfabeti locali, come quello arabo o nepalese, e anche se i contenuti
avessero un senso perfettamente corretto in quella lingua (com’è probabile,
data la meticolosità documentaria di Hergé), risulta impossibile verificarlo
per la maggior parte dei lettori, che così condividono coi personaggi la totale
incapacità di capire le lingue in questione.
Altri esempi tipici si trovano in una storia
di Topolino del 1947 disegnata da Floyd Gottfredson, in cui appare per la prima
volta l’uomo del futuro Eta Beta. Questi è inizialmente incapace di parlare in
Inglese, finché non tira fuori dal suo gonnellino senza fondo un traduttore
simultaneo che gli permette di parlare qualunque lingua, comprese quelle degli
animali, delle piante e perfino di certi oggetti, come il legno del pavimento.
I linguaggi che ne risultano sono per noi del tutto incomprensibili e vengono
resi con strani versi e simboli grafici. Altri fumettisti hanno invece cercato
di rendere comprensibili i linguaggi stranieri, usando vari sistemi.
A volte bastano parziali deformazioni
fonetiche o grafiche a rappresentare convenzionalmente una lingua diversa, che
sarà così compresa facilmente dal lettore, ma non dai personaggi che non la
conoscono.
Autori come Al Capp nelle sue strisce del
montanaro Li’l Abner, o Will Eisner in tante storie del suo eroe mascherato
Spirit, o Bonvi nella sua celeberrima satira militaresca delle Sturmtruppen,
hanno giocato con accenti dialettali o stranieri per evocare la zona
linguistica d’origine dei loro personaggi. Hanno invece usato con ironia dei
dialetti per rappresentare lingue del tutto diverse autori come Jacovitti, che
ha fatto parlare in napoletano gli Indiani d’America, o Hugo Pratt, che ha
fatto parlare il veneziano ai Polinesiani.
Gli autori di Asterix, René Goscinny e Albert
Uderzo, hanno poi utilizzato metodi diversi per rappresentare indirettamente
ogni singola lingua antica parlata nella loro serie: i Romani parlano in latino
maccheronico e con accento italiano (che diventa romanesco nella versione
italiana), i Goti ovviamente parlano in caratteri gotici, gli Egizi parlano per
geroglifici, i Britanni parlano secondo le regole della sintassi inglese, e
così via…
Altri autori ancora possono simulare delle
lingue immaginarie alternando parole incomprensibili a parole nella lingua del
lettore a cui si rivolgono. Un esempio famoso è il linguaggio che caratterizza
gli Schtroumpfs creati nel 1958 dal belga Peyo. Questi piccoli folletti blu
famosi in tutto il mondo chiamati Smurfs in Inglese, Schlümpfe in Tedesco,
Pitufos in Spagnolo, Puffi in Italiano, Smurfarna in Svedese e Smurfen in
Olandese, in ogni lingua prendono il nome dall’immaginaria parola che ripetono
sempre e che usano dandole ogni volta qualunque significato vogliano, che di
solito risulta chiaro dal contesto del discorso. Benché per il resto parlino in
modo del tutto comprensibile, questo basta a dare la sensazione che stiano
parlando in una loro lingua esclusiva. Un altro esempio rimasto abbastanza
famoso è la frase “Epluracas orega”, pronunciata da un personaggio di una
storia di Cino e Franco degli anni ’30 intitolata “La Misteriosa Fiamma della
Regina Loana”, per ordinare la liberazione sua e dei protagonisti. La stessa
frase sarà poi citata anche da Pratt nell’ultimo episodio di Corto Maltese,
come una formula da pronunciare se ci si trova in pericolo…
In pratica le parole epluracas orega non
significano nulla, ma suonano così bene in quel contesto da evocare
indirettamente da sole l’intera lingua del popolo ignoto a cui apparterrebbero,
esattamente come la frase “Klaatu barada nikto” nel film di fantascienza “Ultimatum
alla Terra” di Robert Wise, o come la misteriosa e potentissima formula magica
“Anàl natràc, utvàs betòt, dokièl dienvé” nel film “Excalibur” di John Boorman.
E che dire di certi linguaggi tipici che
sembrano appartenere solo a un singolo personaggio? Accade per esempio col
balbettio del figlioletto adottivo di Braccio di Ferro che, nelle storie
originali degli anni ’30 di Elzie Crisler Segar fa lunghi discorsi ripetendo
solo la parola glop, col padre adottivo che lo capisce perfettamente.
Da parte sua l’uomo del futuro Eta Beta, che
dal 1947 continua ad appare saltuariamente nelle storie di Topolino, aggiunge
davanti alle parole la lettera “p” (che però in Inglese in tal caso è muta…),
mentre l’omino atomico Atomino Bip Bip creato da Romano Scarpa dice
continuamente “bip” (forse per le particelle che emette mentre parla…), il
buffo criminale Cattivik creato da Bonvi non pronuncia le finali e l’uomo di
Neanderthal Java, amico di Martin Mystère, si esprime con inintelligibili
grugniti di cui però il suo socio d’avventure è sempre in grado di comprendere
istintivamente il significato con incredibile precisione.
Sono tutti modi in cui si è tentato di evocare
degli strani linguaggi, ma senza dover inventare una lingua vera e propria e
permettendo sempre al lettore di comprenderli, direttamente o per interposta
persona.
Ma c’è anche chi preferisce fare le cose nel
modo più difficile, per ottenere il risultato più efficace possibile. Se una
lingua immaginaria sarà usata a lungo e costantemente, all’interno di una
storia o una serie, in effetti può valere la pena di inventarla davvero, almeno
parzialmente. È successo in storie di autori molto diversi tra loro, come gli americani
Jess Marsh e Russ Manning, l’italiano Guido Crepax, o l’inglese Alan Moore…
L’Esperanto
della giungla
Quando nel 1929 fu pubblicata sui giornali
americani la versione a fumetti del romanzo di Edgar Rice Burroughs “Tarzan
delle Scimmie”, in strisce giornaliere a puntate disegnate dal canadese Harold
Foster, fu deciso di non utilizzare le nuvolette dei dialoghi e di mantenere
una forma didascalica, quella che in Inglese si definisce da picture book, da
libro illustrato, con dei testi contenenti un riassunto della storia originale
al di sotto delle vignette. Ciò fece sì che il linguaggio delle scimmie
teorizzato da Burroughs nei suoi romanzi, e di cui peraltro lo scrittore aveva
inventato relativamente poche parole, non fosse molto parlato in quella prima
storia disegnata. Per leggere una parola pronunciata da una scimmia, tratta
direttamente dal romanzo, si dovettero aspettare quasi trenta puntate, ovvero
un mese, quando un fratellastro scimmiesco di Tarzan è da lui costretto a dire
Kagoda. Kagoda (arrendersi) è l’unico verbo scimmiesco citato nel primo libro
e, com’è ovvio per una lingua semplice, resta sempre uguale senza coniugazioni.
Quindi, forse anche a seconda del tono, di volta in volta può significare “ti
arrendi?”, “arrenditi!” oppure “mi arrendo”, come in questo caso.
Il successo che arrise al personaggio, anche
sotto forma di fumetto, presto comportò la prosecuzione anche della serie
disegnata, sia in puntate giornaliere che domenicali, ma lo stile narrativo
privo di nuvolette rimase lo stesso e sui giornali lo sarebbe rimasto per una
trentina d’anni, quindi il problema di come far parlare le scimmie per il
momento non fu minimamente affrontato. I vari sceneggiatori e artisti che si
alternarono alla guida della serie si occuparono solo di raccontare e
disegnare, ma non di far parlare i personaggi.
Quando però nel 1947 la casa editrice Dell
Publishing decise di pubblicare sui suoi albi a fumetti anche storie inedite di
Tarzan, e non più solo rimontaggi di episodi già apparsi sui giornali, il
disegnatore Jess Marsh e gli sceneggiatori che collaborarono con lui si
trovarono in una posizione un po’ diversa dai loro predecessori. Con Marsh,
artista dallo stile essenziale e moderno ispirato a quello di Milton Caniff, i
tempi erano maturi perché anche Tarzan diventasse un fumetto basato soprattutto
sui dialoghi inscritti nelle tipiche nuvolette. A quel punto insomma fu
necessario che Tarzan parlasse, e non solo in Inglese ma anche in altre lingue.
Infatti al contrario dell’Uomo Scimmia monosillabico
del cinema, il Tarzan dei romanzi e dei fumetti è un poliglotta che parla molti
idiomi europei e africani, veri o immaginari, e di tutte le lingue fattegli
parlare dal suo creatore Edgar Rice Burroughs, la prima e più importante era
appunto quella delle scimmie…
Quelle che hanno allevato Tarzan, nei romanzi
sono chiamate da Burroughs genericamente scimmioni o grandi scimmie (in inglese
great apes), ma a differenza delle vere scimmie dialogano verbalmente a livello
elementare. Ciò forse non sarebbe del tutto impossibile dal punto di vista
mentale, visto che alcune scimmie antropomorfe avrebbero imparato a comunicare
col linguaggio dei gesti, ma le scimmie esistenti in natura non potrebbero
articolare parole come quelle immaginate da Burroughs, a causa dell’inadatta
conformazione della laringe che permette loro di emettere solo suoni intermittenti
più o meno equivalenti a delle vocali.
Il disegnatore Russ Manning dal 1967 avrebbe
aggirato ogni problema di verosimiglianza, chiarendo nei suoi fumetti che le
grandi scimmie di Tarzan, o scimmie grigie, non sono né scimpanzè né gorilla,
ma una specie del tutto immaginaria intermedia tra le due, dotata di maggiore
intelligenza e più simile all’Uomo (e bisognerebbe forse aggiungere, anche con
una laringe molto più adatta ad articolare delle parole…).
La cosa del resto era già stata in qualche
modo anticipata dallo stesso Burroughs, che nel quarto romanzo del ciclo di
Tarzan fa una precisa distinzione tra la specie delle grandi scimmie chiamata
nella loro lingua Mangani, la specie dei gorilla chiamata Bolgani, e quella
degli uomini chiamata Gomangani o Tarmangani, a seconda che il colore della
loro pelle sia nero (Go) o bianco (Tar). Anche dalle parole che usano per
indicarli si direbbe quindi che le grandi scimmie di Tarzan si considerino più
affini agli esseri umani che ai gorilla.
Curiosamente però, sia nei romanzi che nei
fumetti, la stessa lingua è parlata anche da altre scimmie come bertucce,
babbuini e gorilla (che nella realtà non potrebbero di certo parlare), così
come da alcuni popoli immaginari, regrediti a livello semibestiale o rimasti a
uno stadio preistorico, che abitano terre perdute isolate dal resto del mondo come
la città d’oro di Opar. Inoltre Tarzan usa la stessa lingua per parlare anche
con animali come elefanti e leoni, che pur non potendo rispondere a volte sembrano
capirlo, visto che gli obbediscono. Insomma si direbbe quasi che queste scimmie
parlino una specie di Esperanto della giungla…
Nei suoi romanzi e racconti Burroughs aveva già
introdotto vari termini della lingua delle scimmie, per lo più una lunga serie
di nomi di animali: Bara l’antilope, Buto il rinoceronte, Dango la iena, Gorgo
il bufalo, Duro l’ippopotamo, Histah il serpente, Horta il cinghiale, Manu la bertuccia,
Numa il leone, Pacco la zebra, Pamba il topo, Pisah il pesce, Sabor la
leonessa, Sheeta la pantera, Tantor l’elefante e qualche altra parola del
genere. Inoltre aveva citato alcuni elementi naturali, come Ara il lampo, Goro
la Luna e Kudu il Sole.
Pochi altri termini si potevano dedurre da
alcuni nomi propri scimmieschi di cui lo scrittore aveva fornito la traduzione,
tra i tanti che aveva citato nel periodo in cui Tarzan aveva vissuto tra le
scimmie e non solo.
Lo stesso Tarzan, in realtà un tipico nome
zingaro, nella finzione romanzesca è il primo termine della lingua delle
scimmie citato da Burroughs ed è composto dalle parole tar (bianco) e zan
(pelle), ovvero pelle bianca, secondo una sintassi del tutto simile a quella
inglese che pone sempre l’aggettivo prima del verbo.
Ma a parte un altro paio di nomi come Tub-Lat
(Rotto-Naso) e Zu-Tag (Grosso-Collo) e il nome dato al figlio di Tarzan, Korak
(Uccisore), di tutti gli altri nomi di scimmie che pure dovevano avere qualche
significato, né lo scrittore originale né autori successivi hanno dato
spiegazioni. Solo dal nome della madre adottiva di Tarzan, la scimmia Kala,
furono fatti poi derivare i termini kalan (femmina), kalu (madre) e kal
(latte), probabilmente solo perché Burroughs nel romanzo si riferiva a lei
chiamandola Kala la femmina, anche se femmina e maschio erano tra le poche
parole che nella lingua immaginata dallo scrittore già esistevano…
Tra parentesi tutti i nomi scimmieschi, anche
se finiscono con “o”, “a”, “i”, non sono maschili né femminili, né singolari né
plurali. Tutte le parole sono neutre e restano invariate sia al singolare che
al plurale. Per indicare il genere si possono usare i termini Bu (maschio) e Mu
(femmina), citati da Burroughs nei racconti. Per esempio facendo precedere da
Bu la parola Balu (bambino, figlio, cucciolo), si forma l’espressione Bu-Balu
(bambino maschio). Può anche darsi che bu e mu siano aggettivi e le successive
parole per maschio e femmina, atan e kalan, siano dei sostantivi, ammesso che
le scimmie possano distinguere le due cose.
È poi forse superfluo dire che le scimmie,
anche se grandi, non usano per niente né articoli né preposizioni e nemmeno
pronomi… Quindi la famosa e ingenua frase “io Tarzan, tu Jane” dei film, che
nei romanzi non esiste, Tarzan non avrebbe neppure saputo pronunciarla prima di
aver imparato qualche lingua più umana.
Tra le poche altre parole nella loro lingua
apparse nei racconti di Burroughs, c’è il suono onomatopeico Dum-dum, che è
come dire Tam-tam e che letto all’inglese si pronuncia quasi esattamente allo
stesso modo.
C’è poi la parola Hu, ovvero sì, probabilmente
l’unica di questa lingua che anche delle vere scimmie potrebbero emettere.
Infatti la si sente ripetere spesso, chissà poi se con lo stesso significato,
nel film “Greystoke – La Leggenda di Tarzan Signore delle Scimmie”, una
pellicola del 1984 ispirata al primo romanzo del ciclo con relativa fedeltà ma
anche con ambizioni di realismo, cosicché lì le scimmie non usano la lingua
immaginata da Burroughs e si limitano a ripetere a intermittenza i loro
consueti vocalizzi inarticolati.
C’è infine il grido di avvertimento Kreeg-ah!
(pericolo-attenzione!) ovvero “attenzione al pericolo!”, che nelle storie
disegnate è usato spesso, sia come consiglio che come minaccia, anche deformato
in vari modi. Ma per quasi tutto il resto di questa lingua si sono dovuti
aspettare i dialoghi all’interno degli albi a fumetti…
Il linguaggio delle grandi scimmie venne usato
nelle storie a fumetti disegnate da Jess Marsh e pubblicate dalla Dell fin dal
primo episodio inedito apparso direttamente in albo, “Tarzan and the Devil
Ogre” (Tarzan e l’Orco Diabolico) pubblicato nel 1947 sull’albo Four Color
n°134, in cui non si capisce bene perché, le grandi scimmie erano diventate
delle scimmie bianche, infatti chiamavano sé stesse tarmangani come gli uomini.
È chiaro che il loro linguaggio fu basato sui
libri di Burroughs, ma molte parole sembra siano state inventate nei fumetti.
Nelle storie disegnate da Marsh, le pur approssimative traduzioni che nelle
nuvolette seguono tra parentesi dopo le frasi in lingua scimmiesca e la sostanziale
coerenza che questo linguaggio immaginario ha mantenuto da un albo all’altro e
da un decennio all’altro, dimostrano che non si tratta di parole inventate ogni
volta a caso, ma di una vera e propria lingua. Si direbbe che gli sceneggiatori
si fossero preparati un piccolo vocabolario Scimmiesco-Inglese, per usare
sempre le stesse parole per gli stessi significati.
In quel primo episodio le scimmie di Tarzan
usano termini come atuk (pace), bahno (dimenticare), dando (fermo, fermarsi,
restare), gom (correre, fuggire), gra (aiutare), rand (indietro), unk (andare,
muoversi), vando (bene, buono, evviva), wala (nido, casa, capanna), yato
(vedere, guardare, cercare), yo (amico), yud (venire), yuto (tagliare,
liberare), molte delle quali saranno usate ancora dagli autori degli anni ’60 e
’70.
Sugli albi degli anni ‘50 della serie di
Tarzan, che dopo due numeri di prova era diventato titolare di una propria
testata bimestrale dal gennaio 1948, apparivano spesso dei piccoli dizionari
illustrati Scimmiesco-Inglese coi termini più vari, come gugu (davanti), hul
(stella), kambo (giungla), kas (saltare), neeta (uccello), sopu (frutto)…
Intanto le grandi scimmie cambiarono colore, diventando prima brune e poi
grigie, colore che sugli albi a fumetti rimase la loro caratteristica, poi
esportata da Russ Manning anche sui giornali.
Soprattutto si dovettero inventare un po’ di
verbi scimmieschi, che erano quasi del tutto assenti nei romanzi.
Ma le grandi scimmie usano le loro parole
indifferentemente come nomi, verbi o avverbi senza bisogno di cambiare desinenze,
per cui molte indicano sia una cosa che l’azione corrispondente, come b’wang
(mano, portare), kob (colpo, colpire), jabo (riparo, nascondere), lat (naso,
annusare), nala (su, alzare), nur (bugia, mentire), ud (bevanda, bere), utor
(paura, temere), yad (orecchio, ascoltare), yuto (taglio, tagliare), zut (fuori,
uscire). Le coniugazioni ovviamente non esistono per niente, il ché semplifica
di molto le cose…
Naturalmente poiché gli autori sono americani
certe espressioni seguono la sintassi inglese, come yud rand (venire indietro)
che significa anche tornare, equivalendo perfettamente all’inglese “come back”.
Visto che il vocabolario delle scimmie restava
comunque piuttosto limitato, seguendo l’esempio di Burroughs furono anche
formate molte parole composte per descrivere cose o concetti più complessi,
attraverso suffissi a cui si possono poi aggiungere altri suffissi ancora,
un'altra cosa in comune con l’Esperanto…
Una delle parole composte più usate fin dal
1947 fu bundolo, un termine che molto spesso le grandi scimmie e lo stesso
Tarzan gridano in battaglia, come un vero e proprio urlo di guerra. È composto
da bund (morto, morire) e olo (lottare) e si può tradurre “lottare a morte”,
attaccare, o semplicemente uccidere. Unk-nala (andare-su) indica invece
l’azione più comune per le scimmie, arrampicarsi. Infatti le scimmie di Tarzan
si differenziano nettamente dai gorilla anche perché, nonostante la loro mole,
si arrampicano sugli alberi.
Un esempio di come le parole delle scimmie
possono innestarsi l’una sull’altra è dato proprio dai termini composti a
partire da Den (albero). Da questo deriva prima balu-den (figlio-albero o
albero piccolo, cioè ramo) e poi
pand-balu-den, (ramo del tuono, cioè fucile) e ry-balu-den (ramo curvo,
cioè arco).
Altre parole composte sono gu-mado (in
pancia-zoppo), che significa malato o ferito, kree-gor (pericoloso-grugnito)
che significa urlo, tar-bur (bianco-freddo) che significa neve, wa-usha
(verde-vento) che significa foglia. Invece il termine gree-ah (amore, amare,
ammirare) forse può essere interpretato alla lettera come “attenzione alla
bellezza”, visto che kreeg-ah è “attenzione al pericolo”, sempre che gree
significhi bellezza…
Il suffisso zu (grosso) compare in espressioni
come zu-vo (grosso-muscolo, cioè forte), zu-kut (grosso-buco, cioè caverna),
zu-gash (grosso-dente, cioè lunga zanna, coltello), zu-gor (grosso-grugnito,
cioè ruggito). Invece il termine opposto eta (piccolo, poco) è usato in parole
come eta-gogo (poco-parlare, cioè sussurro), eta-koko (poco-caldo, cioè
tiepido), eta-nala (poco-su, cioè basso), etarad (piccola-lancia, cioè
freccia).
Il rafforzativo eho (molto) dà luogo a termini
come eho-dan (molto-pietra, cioè duro), eho-kut (molto-bucato, cioè profondo),
eho-lul (molto-acqua, cioè bagnato), eho-nala (molto-su, cioè cima).
L’analogo suffisso ho (molti) indica quasi un plurale,
ovvero un gruppo di tante unità. Così fogliame è ho-wa-usha (molte-foglie),
foresta ho-den (molti-alberi), villaggio ho-wala (molte-case), tribù ho-hotan
(molti-clan).
Certe parole altrimenti inesistenti si formano
aggiungendo il suffisso di negazione tand (no, non, senza) al loro contrario,
come tand-ho (non-molti, pochi), tand-lan (non-destra, sinistra), tand-litu
(non-acuto, ottuso, stupido), tand-lul (senza-acqua, asciutto), tand-nala
(non-su, giù, abbassare), tand-panda (senza-rumore, silenzio, pace), tand-popo
(non-mangiare, digiunare), tand-ramba (non-giacere, svegliarsi, alzarsi),
tand-unk (non-andare, restare), tand-utor (senza-paura, coraggio, coraggioso),
tand-vulp (non-pieno, vuoto).
Il suffisso b’ indica poi un elemento attaccato
o intorno a qualcosa. Così da wang (braccio) deriva b’wang (mano), da yat (occhio) deriva b’yat (testa),
da zan (pelle) deriva b’zan (peli, capelli), da zee (gamba) deriva b’zee (piede),
mentre abu (ginocchio) e bandl (gomito) non sono in relazione con altre parti
anatomiche.
Di una parola particolare come por (compagno,
nel senso di partner sessuale) si può specificare il genere distinguendo tra
por-atan (compagno-maschio, “marito”) e por-kalan (compagna-femmina, “moglie”).
Anche il genere dei fratelli si può specificare. Aggiungendo al neutro balu
(bambino, figlio) il prefisso ao (ragazzo) si ottiene il maschile abalu
(ragazzo-figlio, fratello), mentre il femminile è za-balu (ragazza-figlio,
sorella).
Meno chiaro è il significato della desinenza
do. Forse significa imitare, diventare, o fare, come in Inglese. In tal caso da
dan (pietra) verrebbe dan-do (fare o imitare la pietra, cioè star fermo), da
gund (capo) potrebbe venire gando (fare o diventare il capo, cioè vincere), da
kor (camminare) verrebbe kor-do (fare o imitare dei passi, cioè ballare, danza)
e da van (bene) deriverebbe van-do (fare bene, o andare bene, cioè buono).
Altre parole sembrano derivate l’una
dall’altra senza regole precise, ma è chiara la relazione tra termini come ala
(sollevarsi, sorgere) e nala (su, alzare), amba (cadere) e ramba (giacere, dormire),
kos (nemico) e kob (colpire), lana (aculeo) e lano (zanzara), pand (tuono) e
panda (rumore), po (fame) e popo (mangiare), rem (prendere, catturare) e ret
(bloccare, legare), ugla (odio) e ungla (odiare), wang (braccio) e yang (nuotare),
wa (verde) e m’wa (blu), wo (questo) e wob (quello), yat (occhio) e yato
(guardare), yel (qui) e yeland (là); mentre argo (fuoco), aro (lanciare) e arad
(lancia) si direbbero essere derivati tutti da ara (fulmine).
Invece non sono in relazione termini
contrapposti come adu (perdere) e gando (vincere), rep (vero) e nur (bugia),
sord (cattivo) e vando (buono), zor (dentro) e zut (fuori). Anche tand (no) è
giustamente del tutto diverso da rak, che col tempo prese piede al posto di huh
per significare sì. In questo e pochi altri casi fu inventato un termine già
esistente, cosicché alle grandi scimmie non manca neppure qualche sinonimo.
Negli albi di Tarzan degli anni ’50, per la
verità questa vera e propria lingua non era sempre sfruttata. In molte storie
era tradotto direttamente in inglese la maggior parte di ciò che dicevano le
scimmie, che tra l’altro, dato lo stile essenziale di Jesse Marsh, a volte
erano disegnate in modo un po’ approssimativo. Col tempo il suo modo di
disegnare si fece più realistico e ricco di dettagli e all’inizio degli anni
’60 le grandi scimmie erano tornare a parlare un po’ di più nella propria
lingua, almeno all’inizio di ogni frase. Infatti più era realistico il disegno,
più c’era bisogno di farle parlare in modo non umano, per rendere il tono delle
storie altrettanto plausibile. Nello stesso periodo anche sui giornali le
strisce e tavole di Tarzan, allora disegnate da John Celardo, cominciarono a
essere pubblicate non più con le didascalie ma con le nuvolette dei dialoghi.
Nel 1965, a causa di problemi di salute di
Marsh che morì l’anno seguente, toccò a Russ Manning subentrare come
disegnatore titolare degli albi di Tarzan, di cui divenne ben presto uno degli
autori più importanti.
Manning collaborava alla testata realizzandone
dei personaggi secondari fin dal 1952 e diventò il nuovo artista della serie principale
a partire da una storia sceneggiata da Gaylord DuBois che condensava in venti
pagine una nuova versione del primo romanzo di Tarzan. I suoi disegni imposero
uno stile ancora più realistico e preciso e anche le scimmie si fecero ora
molto più verosimili. Mantenere nettamente separato il linguaggio umano dal
loro, che essendo semplice poteva passare per una serie di grugniti, si rendeva
a questo punto ancora più necessario, per cui le traduzioni simultanee erano
ora sempre inserite tra parentesi.
L’uso abituale della lingua delle scimmie, che
è poi anche quella della città di Opar, fu introdotto da Manning anche nei
fumetti di Tarzan pubblicati dai giornali dopo che divenne autore dei testi e
dei disegni sia delle strisce giornaliere, dal 1967 al 1972, che delle tavole
domenicali, dal 1968 alla sua morte avvenuta nel 1979.
Nelle sue storie, spesso Tarzan pronuncia
parole delle scimmie inframmezzate a quelle umane anche se non sono presenti
degli animali, soprattutto se si trova nel bel mezzo dell’azione, il ché è del
tutto naturale trattandosi in pratica della sua lingua madre. A quel punto il
linguaggio delle scimmie era così conosciuto dai lettori abituali che a volte
Manning non si curava più neppure di tradurlo. Anche se non è stato lui a
inventarlo, si può dire che nelle sue storie lo abbia un po’ affinato, usando
espressioni come yuto thub (ferire il cuore) o bundolo thub (uccidere il cuore)
per dire “far soffrire”. Al tempo stesso limitò l’uso delle parole composte,
mantenendo giustamente la lingua scimmiesca sul piano più semplice. Quanto agli
albi di Tarzan, a fine anni ’60 rimasti orfani dei disegni di Manning, poco
tempo dopo cambiarono editore e furono affidati a Joe Kubert. In quel periodo
fu pubblicato un vocabolario di quattro pagine (molto ampio, benché non del
tutto completo) della lingua delle scimmie, che apparve in Italia su Tarzan
Gigante n°14 del 1973.
Parole da
pitecantropi
La maggior parte delle parole della lingua
delle scimmie dovettero essere state inventate appositamente per i fumetti, ma
molte furono invece riprese da termini appartenenti a un’altra lingua creata da
Burroughs per il settimo volume del ciclo di Tarzan, “Tarzan il Terribile”. Qui
il protagonista esplora una terra isolata dal resto del mondo e rimasta ferma
alla preistoria in cui sopravvivono animali di epoche molto diverse, come tigri
dai denti a sciabola e triceratopi, e in cui gli esseri umani sono dei
pitecantropi quadrumani con la coda. Nella loro lingua quella terra si chiama
Pal-ul-Don, “Luogo degli Uomini” (o per meglio dire “dei Pitecantropi”).
Una delle prime cose che Tarzan fa all’inizio
del romanzo è imparare la lingua locale, a cui l’autore dedica molto più spazio
che a quella delle scimmie, e si può verificare subito che nei romanzi si
tratta di due lingue del tutto diverse. Infatti in quella delle grandi scimmie
gli uomini bianchi e neri si chiamano rispettivamente tarmangani e gomangani,
figlio si dice balu, leone si dice Numa, il Sole si chiama Kudu e la Luna Goro.
Nella lingua di Pal-ul-Don invece gli uomini bianchi si chiamano Ho-Don e
quelli neri Waz-Don (sempre con l’aggettivo che precede il nome come in
Inglese), figlio si dice Dor, leone si dice Ja, il Sole si chiama As e la Luna
si chiama Bu, una parola che invece nella lingua delle scimmie significa
maschio.
In origine non c’era insomma nessun legame tra
i due idiomi, molto diversi anche nella grammatica, poiché quello di Pal-ul-Don
aveva almeno un articolo determinativo, Jad, e preposizioni come appunto ul (di).
Nonostante ciò gli autori degli albi di Tarzan,
tra gli anni ‘40 e ’60, integrarono la lingua delle scimmie anche con parole appartenenti
alla lingua di Pal-ul-Don, come A (luce), Bal (dorato), Bar (duello,
battaglia), Ben (grande), Gund (capo, re), Guru (terribile), Jar (strano), Pal
(luogo), Pastar (padre), So (mangiare), Tor (bestia), Ved (monte), Xot
(arrivare). Molti termini di Pal-ul-Don erano parti di nomi a cui Burroughs non
aveva attribuito un significato, ma nei fumetti assunsero un senso preciso
passando nella lingua delle scimmie, che si arricchì così anche di parole come
At (coda), Den (albero), Es (ruvido), Ko (potente), Lot (faccia), Lu (fiero,
feroce), Pan (morbido), Sat (coperta, coprire, chiudere), Tan (guerriero), Tu
(brillante).
Per lo più i significati dati a tali parole
sono abbastanza coerenti coi soggetti a cui erano attribuiti in origine.
Per esempio Ko-Tan (Potente-Guerriero) era il
re di A-Lur (Città Lucente), la capitale degli Ho-Don, Lu-don (fiero-uomo) era
il locale gran sacerdote, Om-At (lunga coda) e Es-Rat (ruvida-coperta) erano
due Waz-Don che si contendevano il comando di una tribù, Pan-At (morbida-coda)
era la ragazza di uno di loro e così via…
Molte di queste parole da pitecantropi, come
Dan (roccia, pietra), Dak (grasso), Kor (cammino, camminare), Lul (acqua), Mo
(corto), Om (lungo), Pal (luogo), Pele (valle), Ta (alto), si inserirono così bene
nella lingua delle scimmie da originare rapidamente a loro volta anche molte
parole composte come bo-pele (piatta-valle, cioè savana), dan-sopu
(roccioso-frutto o frutto di pietra, cioè noce di cocco), dak-lul
(grassa-acqua, cioè lago), ga-lul (rossa-acqua, cioè sangue), gom-lul (acqua
che corre, cioè fiume), lul-kor (camminare in acqua, cioè navigare o nuotare),
mo-kor (corto-cammino, cioè vicino), om-kor (lungo-cammino, cioè lontano),
om-tag (lungo-collo, cioè giraffa) ta-pal (alto-luogo, cioè collina),
zu-dak-lul (grosso-lago, cioè mare, oceano).
Il significato di Kor fu modificato rispetto a
quello che aveva nel romanzo. In origine voleva dire gola, nel senso di stretta
zona di terreno percorribile, e indicava i territori dominati dalle varie tribù
di pitecantropi, come Kor-ul-Ja (Gola dei Leoni) o Kor-ul-Lul (Gola
dell’Acqua). Ma si sa che le scimmie danno alle parole significati ampi, senza
distinguere nomi e verbi, quindi è comprensibile che per loro kor significhi
camminare.
Intorno al 1950, con l’apparizione della terra
perduta di Pal-ul-Don sugli albi a fumetti di Tarzan, iniziò a verificarsi
anche l’inverso e la parola delle scimmie yo (amico) passò a sua volta nella
lingua preistorica. Ma sulle pagine disegnate da Jess Marsh i popoli preistorici
persero coda ed estremità da scimmia e la lingua dei più evoluti fu per lo più
tradotta direttamente in Inglese, mentre ai meno evoluti, i Tor-O-Don (gli
uomini bestia), i soli a conservare qualche tratto scimmiesco, fu fatta parlare
la stessa lingua delle grandi scimmie.
Invece a partire dal 1967, con una nuova
riduzione a fumetti disegnata da Russ Manning del romanzo “Tarzan il Terribile”,
gli abitanti di Pal-ul-Don furono rappresentati come dei veri e propri pitecantropi
caudati che parlavano una lingua in qualche modo diversa, più o meno come accadeva
nel libro di Burroughs.
Rimasero infatti varie differenze tra la
lingua delle scimmie e quella dei pitecantropi. Questi ultimi per esempio hanno
anche una parola, Otho, che significa Dio, un’idea che le scimmie non sanno
concepire. Allo stesso modo, a differenza delle scimmie che non sanno contare,
i pitecantropi hanno delle parole per indicare i numeri, come adenen (cinque),
l’unica che conosciamo perché Burroughs l’ha citata nel suo libro.
Un’altra differenza tra le due lingue è il
plurale. A Pal-ul-Don secondo Burroughs si ottiene raddoppiando la lettera
iniziale delle parole, per cui il plurale di Don (uomo) è D’don e si legge
Dàdon. Ma questa forma ideata dall’autore è rimasta solo sulla carta, visto che
è descritta in una sua nota ma nei romanzi e fumetti di Tarzan non è mai usata
(nei fumetti originali il plurale viene indicato all’Inglese, aggiungendo una s
finale).
In ogni caso, quando dal 1968 Russ Manning
fece ritornare più volte Tarzan a Pal-ul-Don nelle strisce scritte da lui
stesso, mantenne la lingua di quella terra perduta nettamente distinta da
quella scimmiesca, facendo pronunciare ai pitecantropi delle parole come An
(lanciare, colpire), Ont (prendere, portare), Pala (salvare), Panta (donna),
Raka (salire), Sa (no, senza), Sats (parlare, dire), Ston (venire), Un (occhio,
guardare, cercare), V’rar (qui), Vro (legare), parole totalmente diverse da
quelle che erano state inventate per far esprimere concetti simili alle grandi
scimmie. Si può anche notare che, a differenza delle scimmie che chiamano
mangani sia i maschi che le femmine, i pitecantropi hanno una parola specifica
per dire donna, che sembra composta da pan (morbido) e ta (alto), come dire
alto-morbido, forse con riferimento ai seni…
Manning cita anche le espressioni originali di
Pal-ul-Don con maggior precisione di quanto avesse fatto lo sceneggiatore della
versione a fumetti di “Tarzan il Terribile”, riportando ora correttamente i
termini Jad-ben-Otho (Il grande Dio) e Dor-ul-Otho (Figlio di Dio), che in
quella storia da lui stesso disegnata erano invece stati contratti in Jadotho e
Dorotho. Altre parole composte sono per esempio Jar-Don (strano-uomo,
straniero), Bar-Dan (pietra da battaglia, clava) e Bar-An (lanciarsi in
battaglia, attaccare), che gli Ho-Don usano come grido di guerra e che in
pratica è l’equivalente nella loro lingua della parola scimmiesca bundolo.
Data la natura primitiva di entrambe le
lingue, ciò che queste hanno invece sempre in comune è l’assenza di qualsiasi
tipo di coniugazione dei verbi, che restano sempre uguali senza distinzioni né
di persona né di tempo, e anche l’assenza di pronomi. Se si vogliono indicare
dei soggetti o dei complementi oggetti, si devono usare dei nomi propri o i
nomi generici della specie o razza a cui ognuno appartiene.
Riguardo a Pal-ul-Don, Russ Manning introdusse
anche nuove idee e usanze. Per rendere più plausibile una simile terra
preistorica in mezzo a un’Africa ormai totalmente esplorata, elaborò la teoria
che quella e altre terre del passato delle storie di Tarzan vengano raggiunte
in realtà attraverso un passaggio nel tempo che collega le diverse epoche. Fa
poi cavalcare ai Waz-Don i grandi mammiferi preistorici detti indricotherium e
che loro chiamano Ben-Ko (grandemente-potenti, potentissimi), mentre agli Ho-Don
fa montare i triceratopi, che loro chiamano Gryf. Questi grandi rettili dai tre
corni nel romanzo di Burroughs erano invece cavalcati solo dai Tor-O-Don, a cui
Manning continua a far usare oltre a vocaboli di Pal-ul-Don anche molte parole
tipiche delle grandi scimmie, disegnandoli come esseri più vicini a degli
australopitechi che a degli uomini.
Spesso comunque, approfittando del fatto che
Tarzan e suo figlio Korak parlano perfettamente la lingua di Pal-ul-Don,
Manning tenderà ad accantonare il linguaggio dei pitecantropi, traducendo tutto
ciò che dicono, salvo ricominciare a farli parlare la loro lingua quando giunge
tra loro qualche nuovo visitatore dal presente. Infatti fa tornare varie volte Tarzan
in quella terra, di cui nel 1969 inventò anche un nuovo popolo, gli uomini
alati, che parlano una lingua del tutto diversa, simile a fischi di uccelli che
restano indecifrabili.
Anche altri strani popoli tratti dai romanzi
di Tarzan scritti da Burroughs e che non vivono a Pal-ul-Don, come gli uomini
pazzi della città di Xuja o i minuscoli Uomini Formica, parlano ognuno una
propria lingua completamente originale e indipendente, di cui nei fumetti
disegnati da Manning vengono dati in più occasioni dei piccoli saggi, ma senza
che ne siano quasi mai chiariti con molta precisione i significati.
Voci sotterranee
Nel 1965, sulle pagine della neonata rivista
Linus, anche un fumettista italiano altrettanto pignolo e maniacale si prese la
briga di inventare una lingua per un popolo immaginario. L’autore è Guido
Crepax, che nel secondo episodio della serie di Neutron (di cui in seguito la
protagonista diventerà Valentina) creò il misterioso popolo dei Sotterranei.
Sono esseri che vivono al buio e quindi sono ciechi, ma sono anche dotati del
potere della vista paralizzante, un potere che ha anche l’americano Philip
Rembrandt (alias Neutron), imparentato alla lontana con loro per aver avuto tra
i suoi antenati una donna del loro popolo.
Sicuramente una delle cose che contribuiscono
a creare inquietudine in occasione delle apparizioni dei Sotterranei, uomini e
donne calvi e glabri, coperti da tute attillate e dalla magrezza diafana, che
emergono dalle oscure viscere della terra come se provenissero da una sorta di
inconscio collettivo, è anche lo strano e apparentemente incomprensibile
linguaggio che parlano, una lingua dalle vaghe sonorità precolombiane, di cui
però l’autore usa ogni parola con cognizione di causa, sapendo esattamente cosa
significa e cosa sta facendo dire ai suoi personaggi. Infatti il primo episodio
in cui appaiono i Sotterranei è accompagnato anche da una pagina contenente la
precisa traduzione di ogni frase da loro pronunciata in quella storia.
Questa volta è un linguaggio più complesso,
con una vera e propria grammatica, pronomi e coniugazioni e se certe parole
lunghe piene di T e con desinenze che finiscono spesso in N in effetti
ricordano un po’ la lingua azteca, in realtà le radici di molte parole sono più
vicine a quelle inglesi e tedesche, (una volta tanto che una lingua viene
inventata da un autore italiano, per l’appunto si tratta proprio di un
anglofilo…).
È quindi un linguaggio nella sua struttura non
molto diverso da quelli nord-europei, ma camuffato con l’aggiunta di suoni
particolari in modo da farlo apparire più complicato, esotico e un po’
straniante… Ciò non toglie che chi mastichi un po’ di inglese e di tedesco
possa riuscire a cogliere i significati di varie parole.
Ciò che nelle sonorità produce una certa
distanza rispetto alle lingue nordiche è il fatto che qui le parole si leggono
come si scrivono senza troppe regole di pronuncia. A ogni lettera sembra
corrispondere un suono, più o meno all’italiana o come nell’Esperanto, anche se
non è chiaro come si pronuncino lettere come G e J (forse la prima dura e la
seconda morbida), o una lettera molto usata come la W, o un gruppo come SH
(probabilmente all’inglese). La precisione di Crepax giunge comunque a fornire
per tutte le parole anche gli accenti, per assicurarsi che siano lette
correttamente. Comunque cadono quasi sempre sulla prima sillaba.
Dalle traduzioni fornite dall’autore, sia nel
primo che in altri successivi episodi di Valentina in cui i Sotterranei
appaiono, si comprende innanzitutto che i nomi finiscono per lo più in A, come
Únkara (terra), oppure in O, come Wàto (acqua) e Hérto (coraggio), questi
ultimi due chiaramente derivati dagli equivalenti inglesi water e heart. Ma ciò
non ha relazione con il genere, infatti terminano in A sia Màtna (uomo) che
Màutia (donna). Anche Màtna somiglia all’inglese man, con l’aggiunta di due
lettere per renderlo meno riconoscibile.
Il plurale, come l’infinito e la maggior parte
delle voci plurali dei verbi, si ottiene aggiungendo una N finale, come in
Màtnan (uomini), Màutian (donne), Geqùndan (danze), Wàrdan (parole) o Tàglan
(capelli)… Un ennesimo termine affine all’inglese è appunto Wàrda (parola),
così come lo sono Dàut (morte) e Hélta (aiuto). I verbi corrispondenti a queste
ultime due parole sono Dàutan (uccidere) e Héltan (aiutare).
In genere l’imperativo al singolare è uguale
all’infinito, come Métan (mangiare, mangia!) e Vésian (vestirsi, vèstiti!).
Altri verbi hanno desinenze diverse come Qam o Qem (vieni!, venite!, venga!).
Notare che anche Qam e Métan somigliano ai corrispondenti inglesi “come”
(scritto come si legge) e “eat”. A volte la desinenza finale diventa EN, come negli
imperativi plurali Wàrpen (gettiamo!) e Dàuten (uccidete!). Altre forme della
seconda persona plurale dell’imperativo finiscono in AD come Qìmad (venite!) e
Bàirad (conducete!).
Al presente la terza persona singolare cambia
la desinenza AN con ID, come in Sin Dàutid (essa uccide) e Sin Ístid (essa è),
che ha la radice uguale al tedesco ist. Fa eccezione il verbo avere che alla
terza persona femminile fa Sin Habài o Sin Habàit (essa ha). Il verbo dire
invece alla prima persona singolare fa Ih Qeda (io dico) e alla terza persona
del passato fa Qad (ha detto). Le persone plurali del presente restano uguali
all’infinito, come Wéit Dàutian (noi uccidiamo), Wéit Génan (noi andiamo) o
Wéit Màgan (noi possiamo).
I pronomi/soggetti Ih, Sin e Wéit derivano
evidentemente dagli equivalenti inglesi, I, she e we, e da quelli tedeschi ich,
sie e wir. I verbi andare e potere sembrano derivati dal tedesco gehen e forse
dall’inglese may.
Nel futuro della lingua sotterranea il verbo è
preceduto al singolare da Wàrt e al plurale da Wàrtan, un verbo forse derivato
dal tedesco warten (aspettare) o forse dall’inglese to want (volere). Esempi di
verbi al futuro sono le terze persone singolari Sin Wàrt Gìban (essa darà) e
Wàrt Bòren (nascerà) e le terze persone plurali Wéit Wàrtan Gréipan (noi
assaliremo) e Wéit Wàrtan Nésjan (noi salveremo). Ancora una volta i verbi dare
e nascere sono affini alle versioni inglesi, to give e to born, e ancor più a
quelle tedesche, geben e geboren.
Per creare il participio presente nella lingua
dei Sotterranei si aggiungono in fondo all’infinito le lettere DA, come in
Sàihanda (vedente, che vede) e Làutanda (suonante, che suona, ovvero sonoro)
mentre per fare il participio passato basta aggiungere in fondo all’infinito una
A, come in Dàutana (ucciso, morto).
I participi possono valere anche come
aggettivi, infatti alcuni aggettivi terminano in DA e altri in NA, come Sìlda
(corto), Jghna (giovane) e Hìmana (celeste, del cielo). Altri aggettivi
finiscono per MA, come Wàihma (morbido) e Wàrma (caldo), che deriva dalla
parola warm comune sia al tedesco che all’inglese. Altri ancora possono
terminare in modo diverso, come i rafforzativi Màkla (grande), Hàuhta
(superiore) e Hàuhtsa (supremo). Per queste ultime due parole l’autore ha di
certo preso spunto dal tedesco Haupt (capo), infatti sono usate tra l’altro in
un breve discorso tenuto dal Màkla Hàuhtsa Màtna (Grande Supremo), il preteso
dittatore dei Sotterranei, che nei suoi vaneggiamenti di potere riecheggia i
toni dei discorsi hitleriani.
Come in inglese, gli aggettivi e i participi
non hanno plurale e precedono i nomi. Così il nome dei Sotterranei nella loro
lingua è Blìntana Màtnan (Uomini Ciechi), mentre quello di un altro popolo
sotterraneo loro nemico è Áran Màtnan (Uomini di Ferro), visto che indossa
delle strane armature. Anche cieco e ferro sono chiaramente derivati dai
corrispondenti inglesi blind e iron, di cui il primo in pratica è stato
trasformato in un participio passato della lingua sotterranea (come dire
accecato…), mentre il secondo è stato trascritto più o meno come si legge. Gli
uomini e le donne di superficie sono invece chiamati Hìmana Màtnan (uomini del
cielo) e Hìmana Màutian (donne del cielo), poiché la nostra terra per i
Sotterranei è appunto il loro cielo.
Tra i Sotterranei alcune preposizioni sono
sostituite da suffissi. Ad esempio per dire “di noi” si aggiunge la desinenza
RA alla parola Únka (noi) ottenendo Únkara (nostro). Allo stesso modo si
aggiunge la desinenza NA alla parola Hìrid (qui) per ottenere Hìridna (da qui).
Anche il complemento oggetto noi è derivato dal tedesco uns, mentre la parola
che significa qui è simile sia all’inglese here che al tedesco hier.
Una delle poche vere preposizioni è Du (a,
verso, in direzione di), che è del tutto equivalente all’inglese to.
Altro avverbio ispirato a lingue nordiche è
Shnen (presto) che è simile al tedesco schnell. Lo stesso si può dire del pronome
Mih (me, mi), simile all’inglese come la negazione Netn (non), che come in
Inglese non precede il verbo ma lo segue. Di altre parole l’origine è meno
evidente, come Dàima (questo/questa). A volte Crepax attinge a destra e a
manca. Così la radice Hab del verbo avere viene di certo dal latino, mentre la
parola Ikta (pesce) viene dal greco ictys e la parola Amén (in verità) è più
egizia o ebraica che sotterranea…
Le voci dei Sotterranei riecheggiarono ancora
in una storia di Valentina del 1972 intitolata “Il Piccolo Re”, in cui la
sedicente strega Baba Yaga rapisce il figlio della protagonista e di Philip
Rembrandt per consegnarlo alla nuova dominatrice del sottosuolo, la Màkla
Hàuhta Haubqéna (Gran Regina Superiora), che vorrebbe fare del bambino celeste
che discende dal suo popolo il nuovo Grande Supremo. Haubqéna sembra fondere in
una sola parola il tedesco Haupt e l’inglese queen, e anche il termine con cui
il bimbo viene chiamato, Làita Kùni (piccolo re), è chiaramente una
deformazione dell’inglese little king, fuso anche col tedesco konig.
Anche se nelle storie successive di Valentina
i Sotterranei non torneranno spesso, faranno sempre capolino ogni tanto,
trasformati in figure ancor più ieratiche, misteriose e inquietanti, perciò
anche meno ciarliere…
Guido Crepax realizzò poi anche un esempio di
puro simbolismo linguistico col breve racconto intitolato U, evidentemente
ispirato alla commedia “Il Rinoceronte” di Ionesco e realizzato in due parti
tra il 1970 e il 1975. Quasi tutti i personaggi, fatta eccezione per il
protagonista, sono rappresentati come animali e quindi parlano pure come tali,
emettendo versi d’ogni tipo al posto delle parole, rappresentando così i tanti
modi di parlare più o meno ipocriti, falsi, opportunistici, aggressivi o
servili, della poco nobile società in cui viviamo.
Alla fine della prima parte completata
dall’autore nel 1971, anche l’anonimo protagonista sembra essersi adeguato
parlando un analogo linguaggio inarticolato e, poiché nell’ultima vignetta non
possiamo vederlo, si può immaginare che frequentando i suoi bestiali simili si
sia ormai trasformato in animale a sua volta…
Invece quando Crepax riprende e prosegue la
storia quattro anni dopo ci accorgiamo che per il momento è ancora umano e
stava solo tentando di uniformarsi al pensiero evidentemente rozzo e bestiale
del potente di turno, adottando il suo stesso linguaggio per entrare nelle sue
grazie. Poi però ha un moto d’orgoglio, si rifiuta di adeguarsi all’andazzo
generale e ancora per un po’ riesce a mantenere la sua umanità.
Ma vivendo altre vicissitudini tra bestie
d’ogni tipo, poliziotti caimani, mandrilli fascisti, potentissimi elefanti, bovini
sottomessi e scimmioni togati, alla fine cederà anche lui e al termine del
racconto si risveglierà da una notte di sonno inevitabilmente trasformato,
sotto forma di una belva che emette ruggiti invece delle parole.
In entrambe le due parti della storia si può
notare che gli unici altri soggetti che l’autore rappresenta come esseri umani,
e non come animali, sono i giovani di sinistra che protestano contro il sistema
delle bestie…
L’uso di lingue immaginarie, create realmente
o appena accennate, si renderebbe poi davvero indispensabile quando i
personaggi non solo viaggiano in lungo e in largo per terre e isole remote, ma arrivano
a entrare in contatto anche con esseri di altri pianeti, di lontani mondi e
dimensioni del tutto differenti rispetto ai nostri.
Nei fumetti, l’apparentemente futile ma
complicata scienza che si può definire glottologia aliena è diventata una
specializzazione soprattutto dello sceneggiatore Alan Moore, ma non solo.
Commenti
Posta un commento